mercoledì 23 luglio 2014

Cavallo Pazzo



Fino a pochi giorni fa non avevo mai visto dal vivo Neil Young.

Ho letto la sua delirante pseudo autobiografia, ascoltato tonnellate di album, dagli inizi ai Buffalo Springfield a Crosby Stills Nash & Young, fino alle ultime fatiche (l'ultimissima no, ma va bene così), insomma direi che lo conosco abbastanza bene.

Salta fuori l'unica data italiana 2014 a Barolo, prendo i biglietti, tutto ok.

Organizziamo la macchinata, e tra una cosa e l'altra arriviamo a Barolo - piccolo paesino delle Langhe, meno di 800 anime, ricordiamolo - intorno alle 17.30, in netto anticipo.

Bene, la città è accuratamente circondata da volontari della Protezione Civile, che non solo impediscono di entrare in centro, ma pure di parcheggiare nelle zone limitrofe, ridirigendo i viandanti in parcheggi distanti almeno 3-4 km dalla cittadina, con il miraggio di efficienti navette che avrebbero gestito il pellegrinaggio.

Con scatto felino e abile mossa, chiediamo alla Polizia di poter entrare in città, visto che volevamo prendere del vino (non era una scusa) e arriviamo a parcheggiare a forse 100 metri dalla piazza dove si sarebbe svolto il concerto. Assaggiamo numerose bottiglie di Barolo e Nebbiolo, compriamo e quindi andiamo in cerca di un tavolo per la cena.

Ci viene propinato un orrido roast beef di topo come "arrosto di fassona", il tutto a prezzi indicibili. Senza parlare del teatrino del vino: preso alla cassa sarebbe costato una cifra, poco più avanti (sempre all'interno del ristorante) tre euro in meno. Robe da matti.

Scendiamo in piazza poco dopo le 20, e ci accorgiamo presto che il concetto di "overbooking" non deve essere stato compreso dagli organizzatori: siamo stipati come sardine, non c'è alcuna possibilità di muoversi senza colpire un vicino, e il pubblico continua a sistemarsi ben oltre il confine naturale della piazza. Sicurezza? Neanche a parlarne, non ci sono uscite secondarie nè niente di simile, bisogna solo ringraziare che non sia successo nulla.

Nel mezzo del diluvio tenta di esibirsi una misconosciuta signorina, mentre sull'enorme schermo alle spalle del palco si alternano senza sosta immagini e spot dei numerosissimi sponsor (con tutti i danari versati, il concerto sarebbe dovuto essere gratis).

Dopodichè, in ritardo di un bel 40 minuti, arriva Neil Young, con i Crazy Horse, lo schermo si oscura ad ospitare il solo logo della band, con il risultato che chi era più indietro della decima fila o era un giocatore di basket o non vedeva assolutamente nulla di ciò che succedeva sul palco.

Dalla mia posizione (poco davanti al mixer, centrale) si sente abbastanza bene, e quindi mi rendo subito conto del fatto che il suono della batteria, gonfio e anonimo, è voluto. Il bassista - sostituto di Billy Talbot - suona forse solo con il mignolo, e sembra avere una gamba di legno, mentre Young e Sampedro (che suona sempre gli stessi tre accordi) rimangono al centro del palco, inanellando una schitarrata dietro l'altra.

L'inizio dello show è lento e pesante, Goin' Home e Days That Use To Be promettono ma non mantengono, e il primo vero guizzo si ha quando i Crazy Horse lasciano il palco a Young, che da solo suona Blowin' In The Wind e Heart Of Gold, una più bella dell'altra, con il pubblico che finalmente reagisce.

E qui viene da pensare: ma non sarà un po' strano che il primo vero applauso del pubblico arrivi su una canzone acustica e tra l'altro non sua, quando sta suonando uno show elettrico con i Crazy Horse?

Torna la band, si migliora un pochino rispetto alla prima parte, ma il suono è bolso e impastato, c'è pochissima empatia tra il palco e il pubblico, fino all'apoteosi, a quella Cortez The Killer che da sola vale tutto il concerto, un pezzo su cui Neil e i suoi sembrano finalmente aver acceso un interruttore. Il brano è perfetto, potente e ottimamente suonato, una gran bella scarica elettrica.

Subito dopo arriva Rockin' In The Free World  - è solo il tredicesimo pezzo in scaletta, ma siamo vicini alla fine - che inizia bene ma finisce malissimo, parole mangiate sull'ultima strofa, ritornello ripreso senza una logica, insomma un mezzo disastro. Roba che se non fosse stato Neil Young e il pezzo non fosse stato suo lo avrebbero ammazzato.

L'unico bis è quello di Who's Gonna Stand Up And Save The Earth, pezzo inedito non particolarmente convincente (sempre la stessa struttura, prima quinta quarta, come mi ha saggiamente insegnato l'amico Manuel Pili), e la buonanotte arriva poco prima della mezzanotte, un paio d'ore di concerto.

La fila per uscire dalla piazza è lentissima, ma ancora peggio andrà a chi è stato costretto a lasciare l'auto nei vari parcheggi fuori da Barolo che, con il preciso meccanismo delle navette, ci ha messo fino a un'ora e mezza per mettersi in macchina.

In definitiva: non posso dire che sia stato un brutto concerto (anche se quando cominci a sbadigliare sul terzo pezzo c'è qualcosa che non va), ma nemmeno all'altezza delle aspettative. Quelle tre canzoni sono state eccezionali, ok, ma non basta. E se Barolo è un bel paesino, non è attrezzato o pronto per gestire eventi di questa portata.

Con Neil ci rivediamo in acustico, tra un po'.

venerdì 23 maggio 2014

Alle urne


Domenica sarà molto probabilmente una bella giornata, e questo contribuirà a tenere lontane dalle urne molte persone.

Purtroppo, perchè almeno 10 minuti per votare bisognerebbe perderli.

A questo giro voterò per il Comune (Vercelli), la Regione (Piemonte) e per le Europee.

Partendo da queste ultime, ammetto di non conoscere nessun candidato o quasi, e quindi mi affiderò al partito. Quale non lo so ancora, e pazienza.

Regione: la campagna elettorale è stata misera, e sembra che Chiamparino, oltre a essere il grande favorito, sia anche appoggiato da un numero imbarazzante di liste. Molto probabilmente voterò lui.

Comune: senza alcun dubbio, voterò Alberto Perfumo, della lista civica SiAmo Vercelli.

L'asso pigliatutto potrebbe essere De Maria, supportato da Forza Italia e compagnia cantante, giornalista della Stampa che ovviamente ha scelto di sfruttare il suo nome anche in politica.
A lui si contrappone Maura Forte, l'unica vera politica - PD - della situazione.
I due hanno portato avanti una campagna elettorale triste e grigia, tanto da far pensare a un bel biscottone (della serie: non ci pestiamo i piedi a vicenda per adesso, e rinviamo tutto al ballottaggio), mentre gli outsider Bassini, Mazzeri, Poy e non so chi altro sono destinati alle briciole e all'oblio.

Perfumo, imprenditore e molto poco politico, sembra la faccia più fresca e il nome più credibile di tutti, e nella sua lista, per fortuna, non compaiono i soliti nomi triti e ritriti, di gente che ha scaldato la sedia a nostre spese a sufficienza, e di cui la città non sentirà certo la mancanza.

Voterò, e voterò lui, sperando di non essere il solo.

venerdì 18 aprile 2014

Cibo

Ultimamente si sente molto parlare di cibo, forse troppo.

Un po' perchè ormai la televisione straripa di programma di cucina e affini, un po' perchè - diretta conseguenza - gli istituti alberghieri continuano a fare il pieno di iscritti, un po' perchè in Italia, oltre che allenatori, siamo tutti cuochi, e via così.

Sgombro il campo da dubbi: per me, chi si professa vegano per moda, o mangia quelle porcherie di bistecchine di soia, seitan o quello che è, alla fine si intristisce nelle sue convinzioni. Che poi, per ottenere un hamburger da un fagiolo, ci sarà ben di mezzo un processo chimico che ha ben poco di sano, no?

Sto leggendo il libro di Novak Djokovic, Serve To Win (Punto Vincente, credo, il titolo italiano), meno di duecento pagine in cui il tennista spiega come il cambio radicale di alimentazione gli abbia cambiato anche la resa in campo, oltre che la vita di tutti i giorni: abituato a ingozzarsi delle pizze preparate nel chiosco di famiglia, e ingurgitando quindi lievito farina e latticini a pioggia, in un qualche momento della sua vita Nole ha sviluppato una sorta di intolleranza a glutine e lattosio. Tolti questi dalla sua dieta, pare che i benefici siano tuttora incredibili, e di fatto il libro è un invito - o una sfida - a provare la sua dieta per due settimane, per sperimentarne appunto i lati positivi.
Ora, va detto, è una dieta triste, in cui non si può sgarrare e non ci si può nemmeno sognare un cioccolatino, figuriamoci una pizza o una sacrosanta pasta al pomodoro.
Ma quello che mi incuriosisce, e che magari mi spingerà davvero all'esperimento, è il fatto - banale, s'intende - che, dopo le famigerate due settimane senza alcun tipo di glutine, provando a mangiare anche solo un panino o un pugno di pasta, il corpo potrebbe reagire male.
E se così fosse, vorrebbe dire solo che non è più abituato (ma dopo trent'anni a mangiare pasta, pane o altri cereali almeno una volta al giorno, mi sembra difficile), o invece che il corpo per primo trae dei benefici dall'assenza del glutine, e quindi in fondo questo non fa così bene?
Non sto parlando di celiachia, ma di una persona normale, abituata a una dieta mediterranea, in cui ovviamente i cereali sono padroni. Teniamo presente che, a meno di miracoli, tutto il glutine che assumiamo ha ben poco di naturale, il grano che viene coltivato per passare poi all'industria agroalimentare è quasi sempre OGM, per garantire la massima resa dai raccolti, e, in parole povere, perchè chi vende guadagni di più.

Detto questo, l'altra sera ho visto un servizio delle Iene, in cui si diceva come un'alimentazione "alternativa" aiutasse a sconfiggere (non a prevenire, proprio a debellare) il cancro, con un paio di testimonianze mediche di fatto inspiegabili ma reali. In pratica, questa dieta abolirebbe ogni proteina animale, preferendo verdure (bio) e cereali integrali.
Naturalmente è un'alimentazione quasi opposta a quella di Djokovic, ma rimane il punto di fondo che la maggior parte della carne - e del pesce - che mangiamo proviene da allevamenti i cui foraggi sono OGM (più erba riesco a produrre, più animali nutro, più guadagno), e si torna quindi al discorso di prima.

Intendiamoci, non mi sto schierando contro le multinazionali (ho un amico che non mangia o beve nulla che sia prodotto dalla Nestlè, rispetto la sua scelta ma non lo farei mai), ma rimane il fatto che forse bisognerebbe fare un po' più di attenzione a quello che mangiamo e, se possibile, spendere due soldi in più e mangiare un po' più sano.

In fondo, siamo quello che mangiamo, no?

venerdì 7 marzo 2014

Il brutto della diretta





Non seguo molti programmi tv, va detto.


Ma per quei pochi che seguo, sono esigente.

Ho seguito quasi tutto X-Factor, che, a parte la finale, un po' troppo sbrodolata, ho trovato un ottimo prodotto, e ho seguito quasi tutto anche Masterchef Italia.

Mi stanno simpatici i tre giudici, mi piace il pacchetto confezionato da Sky, non è troppo lungo, non ci sono troppe pause pubblicitarie, insomma ci sta.

E quindi ieri sera ho visto la tanto annunciata finale, figlia di una stagione un po' troppo scritta: già dai provini si capiva che c'era la ricerca non tanto del miglior cuoco amatoriale, ma della storia che c'era dietro, per trovare un personaggio, non necessariamente televisivo, con cui il pubblico potesse provare un minimo di empatia. E quindi ecco comparire personaggi improponibili come l'odiata Rachida, che tanto ha fatto discutere, l'inossidabile quanto attempato Alberto, le due litiganti Eleonora e Beatrice, l'eterna seconda Enrica, fino ad arrivare al duo finale, il "business man" pugliese Almo, ex carabiniere e adesso patron di un hotel di lusso per cani, e Federico, il Charlie Brown di Torino, a cui la vita aveva dato tante soddisfazioni lavorative ma poca felicità personale.

Fin qui tutto bene, la tv non è realtà, e quindi ci sta anche che gli autori si diano da fare per arrotondare gli angoli e rifinire il prodotto.

Peccato però che gli ultimi 15 minuti circa della finale li abbiano voluti fare in diretta.

In pratica, semifinale (a tre) e finale (a due) sono state registrate mesi fa, quando tutti erano più o meno abbronzati, in vacanza, rilassati.
Poi, con un colpo di genio, la suspence: Carlo Cracco mostra la busta con all'interno il nome del vincitore (mesi fa), ma ne rinvia l'apertura a data da destinarsi.
Pubblicità, stacco, e si arriva all'agognata diretta: le telecamere inquadrano i Magazzini Generali di Milano (pieni di amici e figuranti), con i tre giudici sul palco che aspettano i due finalisti.
Il brutto è che, per quanto siano ormai abituati alle telecamere, Barbieri, Cracco e Bastianich non sono degli intrattenitori o dei meri personaggi televisivi, e quindi i dieci e più minuti che si ritrovano costretti a riempire sono lunghi, lenti, tentennanti.
Si vede e si percepisce chiaramente che hanno un auricolare o un suggeritore per i testi (per due volte Cracco dice "aspetta" cercando di coprirsi la bocca), e tutto è di una lentezza infinita, uno stillicidio che fa passare la voglia di vedere chi ha vinto.

Quando poi arrivano loro, i due finalisti, tutto è già deciso da tempo, e il vincitore e il vinto conoscono già la loro sorte. Non c'è nessun climax, nessuna suspence rimasta nella proclamazione finale, e nemmeno lacrime o esultanze, a conferma che tutto era già scritto e risaputo. Tralasciando il fatto che l'Ansa annuncia il vincitore prima dell'incoronazione.

Vince naturalmente il brutto anatroccolo, il meno meritevole, il più sfigato, chi aveva una scelto una professione invece di una vita, e che ottiene una seconda chance grazie alla dea tv.

Un pasticcio, di regia, montaggio, recitazione, messa in scena. Un pessimo finale, quindi. Peccato, perchè il programma aveva fatto ben sperare, fino alla fine.

Ma in fondo è tv, non realtà. Tutti hanno il loro quarto d'ora di celebrità.

Anche quando viene celebrato in una terrificante diretta.

martedì 4 marzo 2014

Il grande Oscar

Diciamolo subito: il fatto che un film vinca vari premi internazionali, tra cui l'Oscar, non vuol dire che sia un bel film, o quantomeno un film che si guarda volentieri, e magari si riguarda.

Qualche esempio recente? Il discorso del re, The hurt locker, Crash, Chicago, Shakespeare in love... Tutti film con evidenti difetti, o con chiare falle, cose che rendono incomprensibile la loro vittoria.

E lasciamo pure stare i film stranieri che vincono l'Oscar, opere oscure che nella maggior parte dei casi non vedremo mai. Negli ultimi anni hanno trionfato film austriaci, iraniani, danesi, argentini, cose che nemmeno nei cinema d'essai di una volta sarebbero passati, ma va bene così.

Detto questo, adesso naturalmente - siamo in Italia - tutti salgono sul carro del vincitore de La Grande Bellezza, tutti a dire che Sorrentino è il loro regista preferito, tutti a dire che il film è straordinario, varie, eventuali, ancora un po' e diventa bello pure Sanremo.
Io La Grande Bellezza non l'ho visto, e dubito che lo guarderò mai.
Mi frenano di sicuro le due ore e passa di durata, mi frena l'orrido remix di A Far l'Amore Comincia Tu, mi frena il fatto che ci siano Sabrina Ferilli e Serena Grandi, mi frenano un sacco di cose. A questo aggiungo che, se non ci fosse stato tutto questo polverone di premi, non mi sarei mai neanche chiesto se vederlo o meno. Perchè onestamente, di vedere un La Dolce Vita ambientato negli anni moderni, non me ne frega niente.

Detto questo, c'è Gravity che ha vinto un sacco di Oscar.
Bene, Gravity è uno dei film più noiosi di sempre. Immagini (dello spazio) pazzesche, ok, ma è roba fatta al computer. Bullock e Clooney bravi, ok, ma niente di clamoroso. La noia regna sovrana, vuoi solo che finisca, ma in fondo non ti interessa neanche come andrà a finire, tanto sullo schermo ci sono sempre e solo loro due.

Poi, ha vinto l'accoppiata protagonista - non protagonista Matthew McConaughey - Jared Leto, per Dallas Buyers Club. E tutti giù a dire che ecco, già di nuovo, vince l'Oscar chi si "deforma" fisicamente, ingrassando o dimagrendo di molti chili.
Se prima di vedere il film potevo essere d'accordo, e per Leto la penso ancora così (bravo, ma troppo sopra le righe, specie verso il finale), per McConaughey no. Perchè è vero, è dimagrito molto, ma lo ha fatto per interpretare il personaggio, e non invece durante il film, per testimoniarne la decadenza fisica (che si rende evidente solo in un paio di scene). La sua è un'ottima interpretazione, a prescindere dal peso o dall'aspetto fisico.
Meglio McConaughey di Di Caprio? Bella domanda. The Wolf Of Wall Street non mi è piaciuto, ma Di Caprio lo tiene in piedi da solo (e anche la sua interpretazione in The Aviator, film orrendo, era ottima), e alla sua quarta nomination, il buon Leo fallisce di nuovo l'obiettivo.

Ma veniamo al film vincitore dell'Oscar come "miglior film", in assoluto, 12 anni schiavo. Film rinviato a lungo (ci sarà un motivo, no?), verrà proiettato nelle scuole, bla bla bla. Ma diciamocelo, è un film costruito su misura per vincere premi, il violinista nero che diventa schiavo a metà ottocento, dolore, sudore, ingiustizia, happy end, il tutto basato su una storia vera.

Ma sarà un bel film, una pellicola che verrà voglia di vedere e rivedere? Mah.

mercoledì 29 gennaio 2014

Il lupo perde il pelo

Ieri sera ho visto The Wolf Of Wall Street.


Ok, c'è Leonardo Di Caprio, che tiene su tutto il film da solo.

Ok, è di Martin Scorsese, che ha fatto un sacco di bei film.

Ok, c'è Matthew McConaughey, che ha lasciato un po' da parte i polpettoni e film d'azione e bravino è bravino.

Ok, ci sono un sacco di donne nude o seminude.

Ok, c'è il lancio del nano, che è simpatico quanto grottesco.

Ok, ci sono orge in ufficio, orge in casa, orge in aereo, orge gay.

Ok, ci sono tutte o quasi le droghe possibili, con le conseguenze dell'uso illustrate non in modo moralista ma divertente.

Ok, c'è l'inevitabile (non è vero: era evitabilissima) "scena simbolo" della biro.

Ok, dura tre ore, di cui almeno un'ora e mezza è di troppo.

Fine degli ok. In pratica, è Wall Street (il primo) + The Aviator (per Di Caprio e come sbarella nella seconda metà del film) + Catch Me If You Can (per Di Caprio che è più furbo di tutto e cerca in tutti i modi di fregare le autorità).

Vale la pena di guardarlo? No.
Si capisce, più o meno, come andrà a finire dopo i primi venti minuti di film, e tutto è molto, molto sbrodolato.
Non è un film di cui si sentiva il bisogno.
Se poi siete a casa con gli amici, vi bevete qualche birra, chiacchierate, fate altro, e nel frattempo avete il film in sottofondo, allora va bene.

Si salvano - e alla grande, va detto - il personaggio di Mad Max (uno strepitoso Rob Reiner), e la scena in cui la biondona respinge Di Caprio spingendogli via la fronte con un tacco 20 (o quello che è).

Basta.

martedì 7 gennaio 2014

Bruce Springsteen - HIGH HOPES [recensione]


Partiamo da un presupposto: se nella band hai Nils Lofgren, e ti fai traviare invece dalla chitarra di Tom Morello, c'è qualcosa che non va (alzi la mano chi preferisce il lavoro di Morello su Tom Joad a quello di Lofgren su Youngstown, giusto per dirne una).

Il fatto, poi, che il disco sia composto da tre cover più o meno oscure, due brani già editi e una manciata di inediti, bè, non migliora la situazione.

Ma la cosa peggiore, al di là dei pregiudizi che si potrebbero avere, è che inizia proprio male.

High Hopes, cover degli Havalinas, già approcciata e registrata nel 1995, risulta qui meno piacevole della precedente, elettronica messa a caso, chitarra non equilibrata e via dicendo. Si salva la voce, certo, ma non basta.
Si prosegue con Harry's Place, outtake di The Rising (e si sente non poco la produzione di Brendan O'Brien) in cui si esagera in modo fastidioso con effetti, echi, riverberi e diavolerie varie, mettendo il testo in secondo piano e relegando il brano a essere skippato.
American Skin, per carità, è un bel pezzo, ma se ne sentiva davvero il bisogno? Elettronica, tastiere e Morello la appesantiscono senza discostarsi troppo dall'originale, e anche qui il tasto skip è in agguato.

La situazione migliora, e di molto, con Just Like Fire Would (brano dei The Saints), che porta una ventata di freschezza, un suono che torna ad essere più simile al rock del New Jersey (e Morello infatti sembra messo da parte), che però dopo un paio di ascolti sembra somigliare molto a Small Town (Mellencamp) mischiata a Waitin' On A Sunny Day, con qualche fiato a darle echi di Asbury Jukes. Niente di male, ma neanche di memorabile.

Down In The Hole ci riporta con i piedi per terra: elettronica, voce effettata, orrendi latrati di Patti Scialfa in apertura, e ritmica copiata e incollata da I'm On Fire (di nuovo i disastri di O'Brien). Ma se, con enorme fatica, si riescono a escludere i suoni fastidiosi, il pezzo ha delle potenzialità, il testo c'è, ci si può lavorare.

Heaven's Wall, in una parola, è orrenda. Non si intuisce nemmeno quale possa essere la direzione presa, sembra un loop infinito di "raise your hands" con il wah wah pompato a bomba, una ritmica improponibile e via dicendo. Senza dubbio, il pezzo più brutto del disco, e uno dei peggiori di Springsteen, di sempre.

Archiviato il lato A, il lato B mette in campo delle piacevoli sorprese, a cominciare da Frankie Fell In Love. Il brano ha un suono fresco e molto più vicino a quello di Bruce (Morello assente), il testo è ai limiti dell'assurdo, e nel complesso la canzone ha la carica, il sound e l'energia giuste.
Si migliora ancora con This Is Your Sword, pezzo che si potrebbe definire quasi folk-gospel, con Springsteen che fa da predicatore, "questa è la tua spada, questo è il tuo scudo, questo è il potere dell'amore rivelato, portatelo con voi ovunque andate, e date tutto l'amore che avete nell'anima" il ritornello trascinante, con John Freese a suonare una bella batteria.
Hunter Of Invisible Game continua sulla retta via, un valzerone che ci ridà uno Springsteen più intimista e, ancora una volta, un gran bel brano.

Chiuso il buon trittico, è la volta di The Ghost Of Tom Joad, canzone che più di tutte le altre ci sbatte in faccia le chitarre di Morello. L'apertura ricorda Lost In The Flood live, il violino western e la voce rabbiosa sulla ritmica elettrica ci fa ben sperare, ma poi il castello di carte crolla quando scopriamo che Morello non solo schitarra, ma canta anche, cosa che un pastore bergamasco, con tutto il rispetto, avrebbe fatto di meglio. Senza contare il fatto che il finale è massacrato da almeno tre (ma credo siano di più) chitarre che varcano il confine dell'elettronica, snocciolando effetti che snaturano la canzone e di cui, senza dubbio alcuno, non si sentiva il bisogno.

Ci si avvicina ai titoli di coda con The Wall, che sì, è vero, ricorda un po' Fields Of Gold, ma è una ballata intima e intensa, in equilibrio tra piano e fisa, con un gran bel testo.

La chiusura è affidata a Dream Baby Dream, cover dei Suicide, con cui Springsteen chiudeva i concerti del tour di Devils & Dust. Bell'arrangiamento, bella struttura, tutto ben fatto, il sipario si chiude su una nota positiva.

Nel complesso, viene bocciato senza pietà il lato A, e promosso con qualche riserva il lato B, ma in generale il disco si presenta quanto meno con un suono diverso dal solito: c'è la voglia di sperimentare, ma, al di là della chitarra di Morello - che sembra fare più male che bene - non sembra esserci una direzione precisa. C'è, forse, la voglia di proseguire la strada indicata da O'Brien con The Fuse o Worlds Apart, o le campionature e l'elettronica più o meno timidamente accennate in qualche pezzo di Wrecking Ball, ma non c'è un omogeneità di fondo.
Incredibilmente, il disco in sè funziona, ma dopo qualche ascolto emergono forti e chiari i segnali dei passi falsi, di cose che proprio non andavano fatte.

Tutto questo senza contare il fatto che anche la genesi è stata quantomai caotica: non si capisce per quale motivo (o per esaurire il prima possibile gli impegni contrattuali), Bruce chiama Ron Aiello, gli intima di scavare negli archivi più o meno recenti, entra in studio, registra alla buona qualche pezzo convinto di aver trovato la sua nuova musa in Morello, e poi dice a Aiello di tirarne fuori un disco, senza dargli una direzione.

Certo, non si può chiedere a Bruce di essere lo stesso di quarant'anni fa o di mantenere lo stesso suono, ma gli si potrebbe chiedere almeno a chi sia rivolto High Hopes. Ai seguaci di vecchia data, gente ormai tra i 40 e i 50 anni, che difficilmente si discosta da suono monolitico e fedele del rock della costa est? Ai ragazzini che hanno affollato gli stadi negli ultimi due anni di tour? A quelli che ancora fan non sono, nel tentativo di attirarli nel maelstrom, offrendo loro un mischione di suoni da cui si esce con più di un dubbio?

Aspettiamo il disco solista. O almeno, un seguito di quello con la Seeger Session.