giovedì 26 luglio 2012

London (and Dublin) Calling, 2012



Dunque, la scorsa settimana ero a Londra prima e a Dublino poi.

Ancora una volta, il fatto che in quei giorni, proprio in quelle due città, suonasse tale Bruce Springsteen era una palese coincidenza.

Ma veniamo a noi.

Al di là dei concerti in sè, la cosa curiosa da vedere e in qualche modo analizzare è stata la differenza del pubblico, e degli organizzatori.
A Londra era piovuto parecchio per tutta la settimana, tanto che l'Hard Rock Calling continuava a mandare mail rassicurando i possessori del biglietto che il festival ci sarebbe stato, consigliando di non indossare infradito o tacchi alti, e sottolineando di aver sparso 8mila metri cubi di legnetti sul fondo di Hyde Park, per evitare che questo si trasformasse in un assoluto pantano.

Arrivo a Hyde Park, sotto un cielo plumbeo tendente al nero, verso le 16, e vengo subito assalito da un fetore di marcio. I famosi legnetti staranno anche facendo il loro lavoro, ma l'odore è davvero tremendo. Per fortuna il peggio passa dopo aver passato allo scanner il codice a barre del biglietto (mica lo strappano più, nè), e quando il tempo peggiorerà, i miei piedi si salveranno grazie a un paio di sacchetti di plastica e un paio di elastici, che non c'erano vù cumprà con gli stivali di gomma a ogni angolo (in Italia si sarebbero moltiplicati in 5 minuti, vendendo i calzari a almeno 20 euro).
Mentre volge verso la fine l'esibizione di Lady Antebellum, vado a prendere un paio di birre nello stand apposito, con fila ordinata (e non a imbuto, prerogativa italiana e in parte spagnola). Peccato che la gentilissima signorina si sbagli, e mi dia invece del sidro. Dopo averne bevuto un sorso e aver realizzato, torno indietro - dalla parte sbagliata della fila, badate bene - l'addetto alla sicurezza capisce che devo cambiare le birre, mi fa passare, spiego il qui pro quo a un'altra signorina, che non fa una piega, prende il sidro, mi dà la birra, si scusa per la cosa, tutti contenti. Come in Italia, uguale.
Suona John Fogerty (con un gigantesco Kenny Aronoff), il pubblico non è giovanissimo e praticamente impagliato, oltre che leggerissimamente stipato e dedito in modo quasi fastidioso ad andare avanti e indietro per recuperare la birra (o il sidro, chi lo sa). Nella mezzora prima che cominci Springsteen lo spazio vitale diminuisce ancora, e quando lo show comincia, con una straordinaria Thunder Road solo voce e piano, nella zona dove sono non c'è praticamente reazione. Ci sarà qualche timido accenno di vita dopo un paio d'ore, su Born in the U.S.A. (e qui mi viene da pensare che il pubblico inglese, oltre che ignorante, è rimasto ancora invischiato nell'equivoco della bandiera a stelle e strisce) e praticamente basta. Poi, a fine concerto, arriva Paul McCartney, voglio dire, quella è roba loro, è pure baronetto, fa un'eccelsa I Saw Her Standing There con Springsteen, e niente, tutti impagliati. Twist & Shout, e sul finale di Twist & Shout gli organizzatori spengono il volume, che è tardi e c'è il coprifuoco (alle 22.40???), Springsteen è costretto a salutare con il microfono spento, che non gli accendono neanche il suo per fare ciao, e niente, nessuno reagisce. Da noi ci sarebbe stata la rivoluzione. Scomposta, volgare, inutile, ma ci sarebbe stata. E vabè.

A Dublino, bè, a Dublino è stata un'altra storia. Al di là della città, che trovo molto più a misura d'uomo e anni luce più accogliente di Londra, pubblico e organizzazione sono impagabili. Se la prendono tutti con calma, roba che il pit alle 18.55 (il concerto dovrebbe iniziare alle 19, inizierà poi alle 19.30 circa entrambe le sere) è ancora mezzo vuoto, e anche quando si riempirà, ci sarà tutto lo spazio per respirare, ballare, stare larghi, e se per caso qualcuno ti urta, ti chiede scusa, subito.
Springsteen inizia lo show con un ampio riferimento a quanto accaduto a Londra, accende un enorme interruttore sul palco, "before we were so rudely interrupted", e finisce Twist & Shout. Già da lì il pubblico va in delirio, e continuerà per tutto il concerto, cantando ogni singolo pezzo e facendo silenzio sui brani più lenti. My Hometown, Rosalita, la scenetta con i finti bobbie e sindaco che cercando di spegnere l'interruttore, American Land sono solo alcuni dei momenti in cui la folla è impazzita, ma per tutte le tre ore e passa di musica il livello è stato altissimo.
Il giorno dopo, altro giro altro concerto. E la security, udite udite, distribuiva biscotti a chi era in fila per entrare. Non mera acqua piovana tiepida, ma biscotti.
Durante lo show, lo scenario è simile a quello del giorno prima: tutti se la prendono con calma, ma già dall'inizio, con This Hard Land solo acustica, l'entusiasmo è alle stelle, e rimarrà altissimo fino alla fine, più di tre ore dopo, con tanto di dito medio (quando ci vuole ci vuole) di Little Steven sul cartello "What's a curfew???".
Tra l'altro, a pensarci bene, credo che fosse il pubblico con la più alta concentrazione di locali (quantomeno, inglesi e irlandesi) a cui io sia mai stato, e l'età media non era certo bassissima.

Insomma, potremmo anche continuare a sostenere che noi italiani siamo il popolo eletto, bla bla bla, ma la civiltà e partecipazione che ho visto a Dublino è tutt'altra cosa rispetto alle date italiane.

lunedì 9 luglio 2012

4th (and 5th) of July, Paris



La scorsa settimana ero a Parigi.

Il fatto che il 4 e 5 luglio, al Palais Omnisports di Bercy, suonasse un certo Bruce Springsteen, era puramente casuale.

Arrivo in città il 4 mattina, scendo dal treno e vado direttamente verso il palazzetto, con un fido manipolo di springsteeniani incontrati durante il viaggio. La fila è già abbastanza lunga, prendo il numero 618, nel pit ce ne stanno 750, missione compiuta; in più, il prossimo appello è alle 13, quindi c'è tutto il tempo di fare colazione, passare in albergo, mollare giù lo zaino e poi tornare con tutta calma, mentre le facce conosciute aumentano a ogni metro.
Le previsioni dicevano fresco e pioggia, invece verso ora di pranzo arriva un gran caldo, con piovaschi di 5 minuti che vanno avanti tutto il pomeriggio, afa quasi peggio che da noi.
Ma va bene, poco dopo le 17 ricevo il braccialetto per il pit, esco dalla fila che con questo numero non ho velleità di transenna, e vado a vedermi la mostra di Tim Burton (sì, quella del MoMa) a un centinaio scarso di metri dal palaBercy, non andarci sarebbe un delitto.
Dopo un bel panino grondante unto e una sacrosanta birra fresca, poco dopo le 20 entro nel palazzetto: nel pomeriggio ci sono stati problemi di elettricità, quindi scelgono di non accendere l'aria condizionata, e il caldo è ben presto devastante.
Sono da poco passate le 20.30 quando salgono sul palco, armati di fisarmonica, Roy Bittan e Charlie Giordano, e intonano La Vie En Rose, poi è tutta la band a partire con una robusta We Take Care Of Our Own, seguita da Wrecking Ball. Settimo pezzo in scaletta è The E Street Shuffle, versione bellissima, ripresa più volte nel finale... Ma è il 4 luglio, e quindi ecco che parte Sandy, una delle ragioni per cui sono venuto a Parigi, bellissima. L'assolo di Because The Night è giustamente lasciato a Nils, su Easy Money si agitano i labbroni nuovi nuovi di Patti, su Waitin' un bambino si esibisce in vocalizzi senza senso, e dopo l'Apollo Medley Bruce si siede al piano, "something special for this evening", e parte Independence Day, che è poi l'altro motivo per cui sono qui. Una versione eccezionale, meravigliosa.
Nei bis, bassi violentissimi su Born in the USA, un'attempata fan ("dal '75", dice il cartello) che balla con Bruce su Dancing In The Dark e un'azzeccatissima American Land a chiudere.
Fuori dal palazzetto, durante la fila per prendere il numero per il giorno dopo, mi chiedo cosa potrà mai fare di minimamente vicino a una serata come questa.
Mi faccio la doccia cercando di non lavare via il numero (389, altro pit assicurato) appena vergato sulla mano, e intorno all'una si va a dormire.

Il 5 luglio la sveglia suona poco dopo le 8, che alle 9 c'è l'appello. Recupero dolciumi e croissant a pochi metri dall'albergo e in 10 minuti sono a Bercy, appello veloce e via, il prossimo sarà alle 13, c'è tutto il tempo per girare per la città.
Tappa rapidissima in albergo, che Riccardo si deve sistemare, e poi via per i Campi Elisi, Hard Rock Cafè, Opera e via dicendo con Daniela, con tutta la calma del mondo (cosa in verità molto rara nelle giornate di concerti), appello alle 13 (anche con qualche minuto di anticipo, via) e poi liberi tutti fino alle 15. Bercy è in piena città, vicino a alberghi, supermercati, ristoranti, e quindi ci accomodiamo all'Hyppopotamus, spartendoci una gerla di anelli di cipolla fritti, patatine e calamari, e poi un Hyppo Burger (Daniela lo ordina senza cipolla, capirò perchè solo verso le sette di sera), il tutto innaffiato da una Kronembourg fresca.
Intorno alle 15 ci si mette in fila, poco più tardi comincerà a piovere, ma l'atmosfera è rilassata, anche i ragazzi della sicurezza locale hanno voglia di scherzare e non si prendono troppo sul serio, come spesso succede da altre parti. Prima delle 17 ci danno il braccialetto per il pit, abbandono di nuovo la fila, faccio quattro passi e poi mi prendo anche il lusso di dormire un'oretta prima dello show.
Rientro nel palazzetto poco dopo le 20, il caldo sembra non essere opprimente come ieri, e alle 21 precise salgono di nuovo sul palco Roy e Charlie, questa volta per Au Clair De La Lune... Poi arriva tutta la band, parte la batteria, potrebbe essere We Take Care, e invece The Ties That Bind, gran bell'inizio. Ma c'è qualcosa nell'aria, Bruce manda a ramengo la scaletta, chiama i pezzi uno dopo l'altro, No Surrender, Two Hearts, Downbound Train, Candy's Room, Something In The Night. Una sequenza pazzesca, sei pezzi su sei non eseguiti ieri sera. Qualche pezzo da scaletta "classica" per farci riprendere fiato, poi quella specie di sibilo in qualche modo familiare, Soozie che armeggia con i violini, Nils che fa cenni a Bruce, lui che gli risponde "ok, you got it", e arriva Incident On 57th Street, bellissima.
Splendida versione anche di Spirit In The Night, con Jake Clemons che sul finale accompagna Bruce sui palchetti laterali, ricamando al sax, bella I'm Goin' Down, e poi, come sempre, Waitin': a metà pezzo Bruce prende una bambina dal pit per farle cantare il ritornello, ma poi c'è qualche incomprensione, e la bimba continua a cantare, con Bruce che la prende per mano, la accompagna vicino alla batteria, bagna con la spugna le ginocchia dei suoi jeans e di quelli della bimba, e poi si esibisce in una doppia scivolata. Se ce ne fosse ancora bisogno, il livello di energia è altissimo.
Passa l'Apollo Medley (con crowd surfing incluso!), poi Bruce si siede al piano e... For You. Versione straordinaria, si torna con la memoria a Bologna 2002. Ma non è finita, perchè a fine canzone il gran capo lascia il posto a Roy, torna a centro palco, alza la Telecaster e comincia Racing In The Street, dieci minuti e passa indescrivibili, con una coda meravigliosa, il pianoforte che sembra non fermarsi mai.
Il main set si chiude con Land Of Hope And Dreams, poi prima di eseguire We Are Alive Bruce fa una lunga introduzione, presentando mamma, sorella e suocera, che siedono nella tribuna vip (mamma Adele attivissima!), Thunder Road, una devastante Seven Nights To Rock (Steve lancia la spugna addosso a Kim), Bruce che balla con Jessica (that's my little girl!) su Dancing In The Dark, e una bellissima Tenth Avenue Freeze-Out a chiudere, dopo 3 ore e 38 minuti di concerto.

Di più non si poteva chiedere, più di 40 canzoni diverse ascoltate in due serata, più di sette ore di musica, con l'intensità del palazzetto, che, c'è poco da fare, è nettamente superiore allo stadio.

Dopo lo show nessuno ha voglia di andare a dormire, c'è ancora tempo per una pizza (nel tavolo dietro il nostro c'è il signor Crystal Cat) e una birra, quattro chiacchiere, i commenti estasiati, e poi intorno alle 3 si va a nanna.

Il 6 mattina ci si incrocia, ci si saluta, e poi si va in stazione, è ora di tornare a casa. Prossima fermata, Londra.

martedì 3 luglio 2012

Cosa rimane

Domenica sono finiti gli Europei di calcio 2012, e sappiamo tutti come.

Il torneo, fin dall'inizio, non mi ha esaltato e mi ha convinto poco, tant'è che non ho nemmeno visto le prime due partite dell'Italia.

Ero convinto che saremmo usciti con l'Inghilterra prima e con la Germania poi.

Certo, mi spiace che alla fine, dopo essere arrivati in fondo, si sia usciti con un risultato così pesante, ma d'altra parte va detto che se mai avessimo vinto, quello lì sarebbe tornato a casa come un eroe nazionale, quindi da un certo punto di vista meglio così.

Quindi, cosa rimane?

- un grande portiere, un buon capitano, Gigi Buffon, che poco o niente ha potuto sui gol subiti;
- molti giocatori troppo stanchi, massacrati da un calendario (campionato e coppe) affollatissimo;
- un attaccante a mezzo servizio (Cassano), che in finale forse avrebbe meritato di giocare qualche minuto in più;
- un attaccante sopravvalutato, poco più che mediocre, annichilito dalla difesa spagnola, e finalmente ridimensionato;
- un allenatore che ci ha creduto, ma che ha perso anche punti con frasi tipo "cambiare i giocatori in campo sarebbe stata una mancanza di rispetto nei confronti di chi ci ha portato in finale";
- un presidente del Consiglio che, mah, sembrava impagliato;
- un'Italia che è sempre pronta a salire sul carro del vincitore;
- l'immagine di quello lì, con la sua cresta bionda da imbecille, che dà il pallone autografato (dagli altri, che lui mica sa scrivere) a Eritreo Cazzulati, con le solite frasi retoriche di circostanza;
- i soliti caroselli, smorzati però dal risultato domenicale.

E praticamente basta. Ci ricorderemo a lungo di questi Europei? Non credo, nessun giocatore si è distinto in modo particolare, nessuna partita è stata epica, nessun risultato così inaspettato.

Vedremo in Brasile, tra un paio d'anni.